
Tutto scorre, tutto cambia, molto probabilmente non sono più la stessa persona di allora.

Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.Le tenere ossa non copra una rigida zolla e per lei
terra, non essere pesante: lei non lo fu per te.Marziale, «Epigrammi» V, 34:
Il rumore del piccone che spacca il terreno.
Terra secca, aspra, Molisana.
Il badile di metallo che inzecca, poi affonda, smuove un mucchietto di terra.
Zac, za-zac. Vruum. (pausa) Zac, za-zac. Vruum.
Qual è la distanza tra la mia mano di bambino che scava nella sabbia di Marina di Camerota e queste dita che ti stanno coprendo di Terra?
Non c’è distanza, tutto scorre ininterrottamente e si consuma, ci consuma, mentre ci aggrappiamo al rumore delle lenzuola pulite stese ad asciugare, ad una grappa che sa di finocchietto. Tutto si consuma, tutto muore e vive senza sosta.
Inspira, espira.
In ogni istante condividiamo il respiro con l’intero universo.
Inspira, espira.
Suryanamaskar, saluta il Sole.
Inspira, grida.
Grida di madre, grida atroci, grida silenziose.
Inspira, espira, quel po’ di aria pulita che le ciminiere ancora ci concedono. Il confine tra vita e morte è più sottile di un capello, e si spezza anche più facilmente, . Impara a sentire il cuore in ogni singolo istante, a sentirlo pulsare in tutto il corpo, dalle dita alle braccia al torace alle tempie. È il cuore che ti consuma, è il cuore che conta, è il cuore che brucia; se non riesci a sentirlo, come vivi?
Qual è la distanza tra un pungiglione di zanzara infetto e l’ago di una siringa per eutanasia? Poca, o moltissima.
Se pure trovassi il pungiglione che ti ha punto, se dessi fuoco a tutti i flebotomi infetti da Leishmaniosi, se pure inventassi una cura dopo aver studiato vent’anni, non avrei risolto nulla. Davvero nulla. La morte è lì, dentro e fuori di noi. La morte siamo noi, perchè noi siamo la vita. A che pro odiare, a che pro soffrire? Per perdere altro tempo, altri battiti del cuore? Il cuore è implacabile. O quasi.
Ai funerali non so essere triste; è come se il senso della vita, fino ad allora diluito e spalmato su troppi fronti, mi si concentrasse tutto in un istante, in un punto preciso, in un unico terribile significato. Perchè piangere allora, al più c’è da essere grati della sensazione di aver imparato ancora qualcosa, di essersi avvicinati ancora di più alla bellezza sfuggente dell’esistenza. Ecco, ai funerali quasi sorrido di gioia, perchè l’esistenza è costretta a calare la maschera e mostrarsi per quello che è: un inganno. Fa male pensare che non ci sei più, Simba; ma l’ho sempre saputo, l’abbiamo sempre saputo. Mentre a terra giocavamo a quattro zampe a chi abbaiava più forte, ringhiavamo entrambi alla morte. C’è un attimo per essere tristi, per piangere e star male. Dopo, c’è secondo me l’obbligo morale preciso di tornare alla vita più felici ed entusiasti di prima, perchè è grazie alla morte che capiamo la vita, e viceversa. Trovo quasi offensivo tornare alla vita normale senza lasciarsi cambiare in meglio dalla morte; a che serve la morte? Un morto non è un defunto, un de-functus senza più funzioni; è un morto. E va onorato, la sua gloria dev’essere la nostra vita. La vita è sacra, ogni vita. Sacra.
E ora che succede, dottore?
Succede che Simba se ne va nel paradiso dei cagnetti, dove i gatti non sanno correre e hanno artigli morbidi.
Otto pietre a caso per il tumulo, accoccolata come quando sei nata, sotto un albero di melo. Mangerò le prime mele di quell’albero, in cerca del mio peccato originale. Avrei voluto seppelirti con il tuo osso, Simbotta, lo stesso che fino a una settimana fa mi portavi tra i denti perchè volevi te lo rubassi. Ma l’ho dimenticato.
Scusa, sorella mia.
Non ho parole. Sento ancora una volta di nn avere fatto abbastanza. Vi voglio bene.
Ciao Simbotta.